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La teoria fisica del “multiverso” è una suggestiva ipotesi portata avanti da molti scienziati, secondo la quale il nostro “universo” – quello nato dal Big Bang, per intenderci – non sarebbe il solo ad esistere. Decine, centinaia, migliaia di “altri universi” sussisterebbero, oltre il “nostro” spazio cosmico. È una teoria, beninteso, ma portata avanti con logiche rigorose, che variano a seconda dei vari studiosi che la avallano. Non sarebbe esatto, per cominciare con un esempio, immaginare il Big Bang come un’esplosione di un granello di materia posto in mezzo al “nulla”, il quale poi si espande dando origine al cosmo fatto di stelle, pianeti, galassie. Non sarebbe corretto perché – secondo la teoria del multiverso – non dobbiamo pensare che prima (o “oltre”) non esistesse “niente”. Il Big Bang è soltanto l’inizio della storia di “uno degli universi”. 

Attenzione, non parliamo di “galassie”, che già sappiamo essere di numero incalcolabile. Lo sappiamo bene, da quando i telescopi moderni, uniti alle intuizioni di Copernico, Galileo, ecc., hanno cominciato a “spazzare via” le convinzioni di un cosmo “finito”, completo e delimitato come un “cerchio”, con la Terra in mezzo ed il sole, le stelle e gli altri pianeti a girarle attorno. Dicevamo, attenzione…non parliamo di “galassie” di numero illimitato (per noi non calcolabile) ma di infinità di “universi”, esistenti magari in dimensioni parallele inaccessibili dal nostro cosmo. Sembra lo spot di un film di fantascienza, ma la terminologia astronomica fa cenno proprio ad “universi paralleli”, di-versi dal nostro “spaziotempo”. Per ottenere una “immagine” fruibile (per qualcuno magari è un ricordo di scuola) è un po’ la teoria sostenuta da Giordano Bruno all’alba del’600. Bruno morì per questa idea, che proponeva al mondo della scienza la possibilità vertiginosa, quasi da brividi, di universi infiniti, e quindi di infiniti altri pianeti abitati da esseri intelligenti. 

Il web come “esperienza dell’infinito”

Le teorie del multiverso hanno accelerato, poi, nel ‘900 e negli anni 2000. Questo soprattutto grazie agli studi di menti geniali come Stephen Hawking, l’astrofisico famoso per i suoi studi sui buchi neri, diventato una “icona” della divulgabilità della scienza, nonostante per trent’anni abbia potuto comunicare – a causa di una malattia neurodegenerativa – soltanto grazie ad un sintetizzatore vocale. Ma intanto era successa una “cosa” che aveva cambiato il mondo. Questa cosa era lo sviluppo di internet, che dagli anni ’90 iniziava la sua corsa inarrestabile come “strumento alla portata di tutti”. Ebbene, l’esperienza della connessione al web e della “navigazione” – “trovata” terminologica geniale e straordinaria – recava con sé, al di là dell’utilità pratica, un certo vissuto di infinito. Ciò che “sperimentiamo” quando accediamo a internet e cominciamo a “navigare”, è certamente – tra le altre cose – una certa sensazione di trovarci di fronte ad un numero “infinito” di porte.

“Confini” della rete?

È come se “dietro” lo schermo del nostro device (un po’ come dentro l’armadio delle Cronache di Narnia) si celasse uno “spazio fisico” senza fine, un vertiginoso precipizio fatto di infiniti mondi, come quelli di Giordano Bruno. Anche il vocabolario di internet è “impastato” di “cenni” a porzioni di spazio e ad ingressi infiniti: il “sito”, il “portale”, il “dominio”… Quest’ultimo ci fa calare addirittura in una dimensione quasi “geostorica”, ricordandoci i regni, gli imperi nei quali ci imbattiamo nello studio, appunto, della storia e della geografia politica. E poi la “stazione” play, la “piattaforma”. Anch’esse ci “parlano” di “spazio”. Ma è uno spazio che non finisce. Con la mente “non possiamo” percepire i confini del web. E allora i ragazzi che sono cresciuti con internet, in qualche modo, hanno “idea” dell’infinito. E probabilmente sono “pronti” anche all’idea di “infinito astronomico”. 

 

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