Una forzatura culturale che ritrova una propria spiegazione in una sommersa strategia politica dell’establishment di Ankara: sulla basilica di Santa Sofia, simbolo della città di Istanbul, prima edificio di confessione paleocristiano, poi luogo di culto per i musulmani, poi ancora monumento nazionale, il Consiglio di Stato discute per un’ultima riconversione in moschea.
La riconversione
Prima ancora del verdetto, la decima sezione del massimo tribunale amministrativo della capitale turca Ankara si è già espressa con pareri favorevoli e concordi sulla riconversione dell’edificio, al seguito della richiesta di un’associazione islamista locale. Quand’anche la decisione fosse rigettata dal tribunale turco, l’onere del nuovo decreto passerebbe all’esecutivo, sul cui più alto scranno siede il presidente Recep Tayyip Edogan.
In questo caso l’opzione gettonata sarebbe comunque quella della riconversione per un edificio che sino all’avvento degli ottomani nel 1453 è stato basilica cristiana e, successivamente al 27 novembre 1934 per decreto del pater patriae Mustafa Kemal Ataturk, museo nazionale.
Gli appelli internazionali
“Santa Sofia è un simbolo di dialogo interreligioso ed interculturale, un museo patrimonio dell’Unesco”. È l’incipit della nota diramata dalla Commissione europea a proposito della riconversione del monumento e sul grado di tolleranza culturale e religiosa del paese.
Ma la risposta del portavoce del presidente, Ibrahim Kalin non si è fatta attendere con la difesa intrinseca dell’orientamento nella decisione da parte dei giudici ed in generale dell’esecutivo: “La riapertura al culto islamico non danneggia lo status di Santa Sofia come patrimonio mondiale”.
Ancora qualche giorno prima, lo stesso Erdogan aveva ammonito le ingerenze provenienti oltre i confini nazionali: “Quella di Santa Sofia è una questione di politica interna. Chiunque tenti di intervenire viola la nostra sovranità nazionale”.
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