screen art

Quando azioniamo il nostro PC, se il motore di ricerca è Google, è difficile che il logo “ci saluti” allo stesso modo ogni giorno. Anzi, ormai siamo abituati a distinguere quasi “a malapena” le sei lettere del logo stesso, perché esse sono come “ricoperte” di segni arzigogolati, di simboli, di cifre… Oppure capita che il ritratto di un volto – magari riconoscibile perché appartenente ad un poeta o ad uno scienziato di fama mondiale – “sostituisca” totalmente uno dei caratteri, o faccia capolino dall’interno degli stessi, magari da una delle “o” o delle “g”. Cos’è successo al celeberrimo logo?

Beh, niente di speciale, ormai. Siamo semplicemente di fronte ad un doodle. Questa espressione inglese vuol dire “scarabocchio”, oppure “ghirigoro”. In ogni caso, il concetto di doodle si avvicina a quei segni che verghiamo sulla carta con apparente distrazione, con pura istintualità, mentre ascoltiamo una spiegazione a scuola o all’università – o in qualsiasi situazione di “ricezione passiva” di contenuti -. Pare che questo “scarabocchiare” il foglio bianco che abbiamo davanti – o un diario, o un block-notes – renda più acuta l’attenzione, e faciliti l’apprendimento e la memoria. Ad ogni modo, milioni di persone sono occupate nella creazione di doodles nei momenti di concentrazione intellettuale! Ma… il logo di Google? Beh… col tempo esso è diventato la “casa” di ghirigori sempre più artistici e concettuali, e sempre meno “scarabocchi”. 

Dai primissimi doodles ad una vera screen art

La prima volta che i fondatori di Google “lavorarono” sulla “tavolozza del logo” – se così, ormai, si può chiamare – fu nel 1998. In realtà in quel frangente si trattò quasi uno “scherzo”, di un esperimento divertente. Larry Page e Sergey Brin collocarono dietro una delle “o” di “Google” la figura stilizzata di un omino con braccia e gambe divaricate, un po’ in stile “uomo vitruviano”, con il semplice scopo di “segnalare” la loro partecipazione al Burning Man Festival, un evento che ricorre a settembre nel deserto del Nevada, al termine del quale viene bruciato un fantoccio di legno: ed ecco il rimando dell’omino dietro la “o”. Page e Brin volevano solo dire: noi siamo lì, oggi. Non immaginavano che quel “vezzo”, quella “x” vergata quasi per istinto e lasciata lì, nascosta dietro la forma lunare della “o”, avrebbe inaugurato una carrellata infinita di doodles artistici che dura ancora oggi. 

Come definire quest’esperienza?

Ciò che accade è che qualcosa di armonioso e significativo ci sorprende all’accensione del PC. Riconosciamo magari il volto di Shakespeare. Distinguiamo un pallone da basket, una racchetta da tennis. I doodles ci accompagnano nell’universo infinito della memoria e delle ricorrenze. I giorni di nascita di sportivi o letterati, i “tornanti” della storia, raffigurati sempre con inesauribile fantasia e raffinatezza, ci prendono alla sprovvista. E prima di lavorare al PC, ci fermiamo e ci godiamo quei colori, quei volti. Ma la “vita” di questo “oggetto artistico” dura al massimo 24 ore. Perché il giorno dopo arriva una ricorrenza nuova: il “doodle” deve cambiare. Che “luogo” artistico è, questo? Non è un museo, né il muro di una strada. Non è neanche un video. E’ un “luogo” che coincide con un “gesto contemporaneo”: schiacciare “avvio” su una tastiera. Vive solo all’accensione di uno schermo. Ma alcuni doodles sono bellissimi. Screen art?

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