I dipendenti pubblici in Italia costituiscono meno del 15% degli occupati, contro una media Ocse del 18%, e dal 2007 il settore pubblico ha visto costantemente diminuire il numero di impiegati in un contesto di blocco delle assunzioni. Conseguentemente l’età media è cresciuta oltre i 50 anni e, ormai, quasi la metà dei dipendenti pubblici ne ha più di 55. Nei prossimi anni il comparto dovrà fronteggiare la sfida di sostituirne centinaia di migliaia. Chi li sostituirà condizionerà il futuro dell’Italia intera.

Il PNRR

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza si propone di investire, fra le altre cose, in Digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA. Nei documenti preparatori si parla non solo di adeguare la dotazione infrastrutturale, ma anche l’organico della pubblica amministrazione, valorizzando le competenze esistenti e accogliendone di nuove. Come sottolinea l’OCSE, le competenze dei dipendenti pubblici sono cruciali nell’implementazione e nel successo di qualsiasi politica di riforma.

Il dipendente pubblico competente è colui il quale, a partire dall’insieme delle sue conoscenze e abilità, cioè dalle sue competenze, e nell’interazione con il contesto, riesce a contribuire al soddisfacimento di un interesse collettivo. Ci preme qui sottolineare tre prospettive di cambiamento dello status quo per permettere un processo di rinnovo e di aumento delle competenze dei dipendenti pubblici più consapevole. C’è sempre il rischio, infatti, di ritenere sufficiente un aumento degli organici, che invece deve essere parte di una più ampia strategia.

1. Riconsiderare le proporzioni dei livelli di istruzione e delle specializzazioni

I nuovi assetti organizzativi dovrebbero innanzitutto riconsiderare la distribuzione del personale in base al livello di istruzione. Il 70% dei dipendenti pubblici ha un diploma o un titolo di studio inferiore, mentre soltanto il 3% ha una specializzazione post-laurea. In una PA moderna è fondamentale assegnare alcune funzioni soltanto a personale diplomato, sfruttandone l’abbondanza e formandolo adeguatamente. È inoltre imprescindibile un aumento della proporzione di dipendenti pubblici laureati, proseguendo il trend positivo degli ultimi anni. Questo aumento risulta specialmente necessario per ministeri, regioni ed autonomie locali, che, come riporta ForumPa, mostrano un tasso di laureati intorno al 25%.

La questione diventa però più complessa quando si considera non solo il livello di istruzione, ma anche il campo di studio. Il Conto Annuale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che riporta i dati aggregati sul pubblico impiego, non include tale variabile. Anche l’OCSE, in un report del 2017, criticava l’assenza, in Italia così come nella maggior parte degli altri paesi OCSE, di un sistema di “tassonomia”, mappatura e individuazione dei deficit, sulle competenze dei propri dipendenti pubblici.

Ci sembra quindi fondamentale che l’Italia investa delle risorse per questa mappatura, come strumento operativo per le amministrazioni. Si creerebbe così una piattaforma di benchmark nazionale, favorendo sia processi di analisi interna che dinamiche di apprendimento. Infatti, il ribilanciamento dei mix di livelli di istruzione e settori di specializzazione deve iniziare da una definizione, ponderata e orientata al futuro, dei fabbisogni di personale della singola amministrazione.

2. Investire opportunamente in formazione

Avere una PA competente non significa solo avere impiegati con un elevato livello formativo all’ingresso, ma anche opportunamente formati sul posto di lavoro. L’ultimo report FormezPA, pur risalendo al 2015, restituisce una dettagliata fotografia dello stato degli investimenti e dei processi di formazione della pubblica amministrazione italiana, in particolare per Comuni e Province. Dal report emerge come i processi formativi siano principalmente verticali, come ad esempio strumenti di tutoring, mentoring e sulla trasmissione del know-how da parte di superiori o esperti esterni.

Al contrario, si ricorre raramente a modalità più innovative come autoapprendimento, focus group e rotazione delle mansioni. Il sistema mostra inoltre una consistente disomogeneità territoriale rispetto alla presenza di strutture preposte alla formazione per la PA (ad esempio Uffici Formazione). In particolare, le amministrazioni di ridotte dimensioni e quelle del meridione presentano una maggiore carenza: nel Mezzogiorno meno del 50% dei Comuni ne possiede una.

Per quanto riguarda l’ammontare della spesa in formazione, nel 2013 questa corrispondeva a circa lo 0,2% della spesa retributiva per i Comuni e le Province. Quanto si può essere soddisfatti di simili percentuali? Per rispondere, basti pensare che nello stesso anno il 73% di questi enti segnalava la scarsità di risorse finanziarie come principale fattore critico della formazione. Per equipaggiare la PA per le sfide del futuro, dunque, è certamente necessario incrementare le risorse per la formazione del personale, nell’ottica dell’apprendimento continuo, ma dovrà essere prevista una maggiore varietà di percorsi formativi, favorendone al contempo l’orizzontalità. In particolare, un simile investimento dovrebbe essere più significativo al Sud e non dovrebbe prescindere da una sistematica e continuativa valutazione di costi e benefici, incluse considerazioni sul raggiungimento degli obiettivi.

3. Adeguare lo schema salariale

Il terzo punto fondamentale per il rinnovo del settore pubblico in Italia è una revisione della gestione salariale. La teoria economica suggerisce che la maniera più efficiente per stabilire i salari pubblici sia replicare quelli offerti dal settore privato per mansioni equivalenti, tenendo conto dei benefici propri del pubblico impiego, questo però non sempre avviene nella pratica. Un recente report stima che in Italia i lavoratori non laureati guadagnano mediamente il 17,5% in più nel pubblico che nel privato, mentre i dipendenti pubblici laureati sono penalizzati in media del 2,9% rispetto alle controparti nel privato. Inoltre, gli stessi autori mostrano come la proporzione di dipendenti pubblici laureati rispetto a quelli non laureati sia andata aumentando negli anni, malgrado la penalizzazione salariale rispetto al privato.

D’altro canto, risulta difficile stimare il valore dei benefici non monetari che derivano dall’impiego pubblico, anche a causa di una certa variabilità settoriale. Ad esempio, per quanto riguarda la lunghezza dei contratti, dagli ultimi dati ISTAT emerge che in Italia i dipendenti pubblici laureati possiedono in media il proprio impiego da circa sei anni e mezzo in più rispetto ai lavoratori privati con una laurea.

Quindi, se da un lato la gestione salariale del settore pubblico italiano sembra privilegiare i lavoratori meno istruiti, dall’altro i dipendenti pubblici appaiono in media più protetti dall’incertezza del mercato. Potendo investire una quota di risorse aggiuntive ci sembra necessario rendere il percorso pubblico più attrattivo per lavoratori con titoli di studio più elevati, tramite una più alta retribuzione. Tale proposta è in linea con ricerche scientifiche come quella di Dal Bò e colleghi, che mostrano come salari più elevati attivano lavoratori più competenti, senza pregiudicare la passione e la motivazione intrinseca che spesso sta alla base della scelta di lavorare nel settore pubblico.

Conclusioni

Per investire sulle competenze dei dipendenti pubblici, insomma, non basta soltanto assumerne di più. Ogni amministrazione deve innanzitutto definire i fabbisogni di personale a partire dai propri obiettivi, per poi colmare i gap identificati. Ma, per aumentare le competenze, serve un sistema strutturato e continuo di formazione, insieme a riconoscimenti economici adeguati alle professionalità.

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