Come mai alcuni tra i più promettenti registi italiani abbandonano la propria casa per cercare successo oltre confine? Sta forse dilagando un’ondata di esterofilia? Probabilmente la verità è ben più complicata di così. Con un’industria cinematografica orientata quasi esclusivamente sugli stilemi della commedia all’italiana sembra pressoché inevitabile una considerevole fuga di cervelli.Pasolini, Minervini e Pallaoro sono tra i più noti protagonisti dell’export che il cinema tricolore ha vissuto negli ultimi anni, posti sotto i riflettori e all’attenzione dei connazionali soprattutto grazie all’interesse di Alberto Barbera, il cui ruolo di direttore del Festival di Venezia gli ha permesso di mettere in risalto questo fenomeno. Il romano Uberto Pasolini si è fatto strada nel settore dell’audiovisivo in veste di produttore con la sua Redwave Films; solo negli anni duemila è avvenuto il passaggio dietro la macchina da presa, e con l’opera italo-britannica Still Life ha trionfato al Lido nel 2013 come migliore regia nella sezione Orizzonti. Risale invece all’anno precedente la presentazione in laguna di High Tide, la pellicola diretta da Roberto Minervini, il regista marchigiano trapiantato ormai negli USA da lungo tempo che, con il più recente Stop The Pounding Heart, è approdato addirittura a Cannes. L’apprezzato regista, sebbene lusingato dai paragoni della critica ai grandi Rossellini e Malick, ha preferito definirsi “zavattiniano” per indicare il forte attaccamento ai suoi personaggi. Si aggiunge allo schieramento di talenti evasi dal nostro Bel Paese il trentino – ormai statunitense – Andrea Pallaoro che ha esordito magnificamente con un’anteprima mondiale del suo Medeas a Venezia; per lui sono giunti riconoscimenti da ogni dove, e tra i più prestigiosi la miglior regia al Festival di Marrakech consegnatogli dalla leggenda Martin Scorsese. E’ forse possibile che la staticità della realtà cinematografica nostrana paralizzi anche le nostre idee? Perché sembra quasi che basti sconfinare per riuscire a liberarle.