Uno dei temi ciclici del dibattito pubblico in Italia è legato alla cosiddetta “quota rosa” (o meglio, “quota di genere”), cioè il sistema che mira a garantire una presenza equilibrata di uomini e donne nel processo decisionale. Si tratta di uno strumento utilizzato per combattere la discriminazione di genere, volto a cambiare, sia temporaneamente che sul lungo periodo, una cultura che ancora favorisce gli uomini nei ruoli di responsabilità.

Affermative action

Stiamo parlando di un'”azione positiva” (affermative action in inglese), cioè una misura che prevede agevolazioni per minoranze o gruppi svantaggiati per compensare l’impatto di un’effettiva discriminazione. Questo tipo di processo decisionale politico coinvolge non solo le donne, ma anche gruppi sociali o etnici, cui sono talvolta riservati dei posti nelle procedure di selezione universitaria.

Gli Oscar

A questo proposito, la decisione dell’Academy di introdurre il criterio di inclusività tra quelli validi per la scelta di un film da candidare agli Oscar ha suscitato molte discussioni. Secondo le nuove normative, a partire dal 2024, per ottenere l’ambita statuetta i film devono soddisfare almeno due di quattro categorie. Queste quattro categorie riguardano la diversità di genere, di orientamento sessuale, appartenenza a minoranze e disabilità (non necessariamente di un attore, ma anche nella trama, nei personaggi o negli addetti ai lavori del film stesso).

Come spesso accade con i temi complessi, esistono diverse buone argomentazioni a favore delle quote, ma anche altrettante che ne mettono in discussione la reale utilità. Cerchiamo allora di districare la matassa, analizzando tutte le sfumature di un dibattito molto delicato ma estremamente interessante e importante.

Sì alle quote di genere perché…

La necessità di un sistema in grado di riequilibrare la rappresentanza di genere è nata tra fine anni ’70 e inizio anni ’80, quando le donne elette nei parlamenti nazionali nel mondo erano solo il 10,9%. Dopo quarant’anni la situazione è un po’ migliorata, ma comunque la percentuale di donne nei parlamenti europei è del 28%.

Un po’ di numeri

Secondo Sky Tg24 la situazione non migliora al di fuori dell’ambito politico, visto che ci sono solo 7 donne a capo di una società quotata in borsa in Italia e le donne manager del settore creditizio sono il 4,2% del totale. Insomma, il gender gap è un dato indiscutibile: secondo i dati diffusi dall’Unione Europea, a parità di mansioni il reddito orario medio delle donne è inferiore del 14,1% rispetto a quello dei colleghi maschi.

Glass ceiling

Il cosiddetto “soffitto di vetro” (glass ceiling in inglese) è una metafora che rappresenta visivamente, quindi, l’idea di una barriera invisibile sulla testa delle donne che ambiscono alle cariche più alte. La nascita delle quote di genere ha appena sfondato questo limite massimo: secondo i sostenitori di questa misura, la discriminazione contro le donne è un fatto sistematico e assimilato nella nostra cultura, che richiede pressioni nella direzione opposta.

Collo di bottiglia

Chi sostiene l’utilità di simili misure, lo fa poi anche per una questione meramente numerica. Le donne in Italia sono oggi 1,6 milioni più degli uomini e ciò vuol dire che, in condizioni ideali, a livello statistico esisterebbero probabilità molto simili di trovare una donna o un uomo preparati per ricoprire lo stesso ruolo di vertice. Tali aspettative, come abbiamo visto, sono invece completamente disattese dai dati empirici e ciò evidenzia l’esistenza di un “collo di bottiglia” che blocca l’ascesa delle donne: si tratta ancora una volta di una zavorra culturale e l’unico modo per abbatterla nel medio periodo è l’imposizione di quote per via normativa.

Prima legge italiana per il gender gap

L’ultimo argomento utilizzato dai sostenitori delle quote è forse anche quello più efficace: lo strumento, banalmente, funziona. La prima legge italiana per riequilibrare la rappresentanza di genere in politica risale al 2017 e prevede che nella stesura delle liste elettorali venga rispettata l’alternanza uomo-donna e il limite massimo del 60% per un genere. Come risultato, il parlamento eletto nel 2018 in seguito a quella legge (ovvero quello attualmente in carica) era composto da 334 donne, il numero più alto mai registrato in Italia, con 35 onorevoli donne in più rispetto alla legislatura precedente.

Legge Golfo-Mosca

Un discorso molto simile vale anche per la legge Golfo-Mosca, un provvedimento approvato a fine 2011 che impone alle aziende quotate in borsa di riservare almeno un terzo dei posti nei consigli di amministrazione alle donne. Come risultato della piena attuazione di quella legge, la presenza di donne nei board è passata dal 5,7% del 2011 al 35,5% del 2019 (e quindi sopra il 33,3% minimo richiesto dalla legge).

Questi risultati sono certamente il segnale che l’imposizione di quote aiuta la causa di chi è stato a lungo discriminato, ma anche nelle intenzioni dei più accaniti sostenitori non può che essere un placebo momentaneo. La vera battaglia di lungo periodo è quella culturale e, sebbene la via normativa sia efficace, non esiste un’alternativa concreta ad un’educazione all’inclusività.

No alle quote di genere perché…

Meritocrazia

La prima obiezione di chi si oppone al sistema delle quote ha a che fare con la meritocrazia. Imporre un’azione positiva vuol dire infatti ammettere che, in alcuni casi, non sarà la persona più preparata o quella più adatta ad accedere ad una carica, ma semplicemente quella storicamente più discriminata. Se un uomo merita una posizione più di una donna, è la critica mossa, questi potrebbe essere ostacolato dal suo genere di nascita. E ciò avviene per riequilibrare una sottorappresentazione iniqua, certo, ma si può davvero combattere l’ingiustizia con altra ingiustizia?

Un problema di quantificazioni

Il secondo argomento di chi contesta le affirmative actions è più sottile ed è spesso mosso dalle stesse minoranze. Come si quantificano le quote da assegnare? Una ragazza bianca è più o meno discriminata di un ragazzo nero? Può sembrare una mera questione filosofica, ma è una riflessione che ha implicazioni molto reali: come ha spiegato Federico Rampini in un recente articolo pubblicato su Repubblica, gli studenti cinesi della University of California si sono sentiti discriminati da un provvedimento dell’università che istituiva delle quote riservate alle minoranze.

Ciò accade perché gli studenti asiatici sono di solito sovra-rappresentati nelle ammissioni universitarie (per via delle loro performance scolastiche elevate rappresentano il 36% delle matricole ammesse al primo anno dei corsi universitari californiani) e l’introduzione di quote per le minoranze andrebbe paradossalmente a danneggiare una delle minoranze oggetto del provvedimento, con gli studenti asiatici che vedrebbero ridursi i posti a loro assegnati.

Possibile mantenimento delle discriminazioni

C’è però anche chi pensa che l’introduzione delle quote finisca per ottenere il risultato opposto rispetto a quello sperato. Una delle critiche mosse più di sovente a questo genere di provvedimenti è infatti quella secondo cui porre l’accento sul genere, sull’etnia o sul gruppo sociale di una persona, contribuisca a mantenere in vita le discriminazioni basate su tali aspetti. Ciò avviene perché l’azione positiva sottolinea fortemente categorie (uomo/donna, transgender/cisgender, omosessuale/eterosessuale) che nell’ottica di un reale progresso culturale verso l’inclusività dovrebbero invece essere superate.

In conclusione

Si può utilizzare una discriminazione per combattere altra discriminazione? Questa è una domanda che non ha soluzioni facili, ma solo parziali tentativi di fornire una risposta. Secondo alcuni il sistema delle quote è indispensabile, poiché non esiste altro modo per riequilibrare nel breve termine una società iniqua, che mette ai margini donne e minoranze. Secondo altri, simili provvedimenti, applicati da una classe politica composta soprattutto da uomini, finirebbero per accentuare tali differenze o addirittura per crearne delle altre.

Ciò che è certo è che il sistema delle quote nasce per rispondere ad un problema fin troppo reale, figlio di una dinamica che ancora oggi in Italia tiene lontane le donne dalle posizioni di vertice e le sottopone a discriminazioni lavorative sistemiche. Per rompere quel “soffitto di vetro” servono azioni radicali, ma non si può rinunciare all’educazione: i provvedimenti legislativi influiranno sicuramente nel breve termine, ma la battaglia per l’inclusività è innanzitutto una questione culturale.

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