Una quota per essere pari. Ma è quello che serve?

Nel panorama politico italiano impazza la questione delle quote rosa. Una situazione al limite del paradossale se si pensa a tutte le conquiste ottenute dai movimenti femministi negli anni passati. Lea Melandri, attivista del movimento italiano delle donne negli anni settanta, percepisce le quote rosa come un regressione, un passo indietro di quarant’anni quando “la donna era vista come una minoranza sociale per la quale si doveva colmare uno svantaggio, garantendole tutela e valorizzazione”. Il primo Gennaio 1948 entra in vigore la Costituzione Italiana che all’articolo n.37 recita: la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione. La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato. (…) È forse questa la forma di tutela a cui fa riferimento la Melandri. Il ruolo prioritario è dunque la famiglia. Ma nell’arco di sessantasette anni numerose sono state le evoluzioni sociali, culturali, economiche e politiche. Ad oggi questo concetto è in netto contrasto con il ruolo della donna del III millennio. Una persona libera da ogni costrizione e da ogni preconcetto e libera di scegliere della propria vita. Per questo l’idea delle quote rosa è a tratti offensiva e denigratoria. La donna non è una specie protetta o da salvaguardare anche se, ed è inutile nasconderlo, ci sono ancora dei grossi divari, soprattutto da un punto dal punto di vista della retribuzione a parità di impiego. A dimostrazione di ciò basta analizzare la classifica annuale del gender gap stilata dal World Economic Forum (www.Weforum.org).

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