Conversazione semiseria con l’autore delle liriche del fortunatissimo musical “Ammore e Malavita”, vincitore incontrastato agli Oscar italiani del 2018 .

Da un David di Donatello per la canzone “A verità” nel film Song’e Napule (2014) a un altro per il brano “Bang bang” nel pluripremiato Ammore e Malavita (2018), entrambi diretti dai Manetti Bros, passando per il Festival del Cinema di Venezia e sfiorando, giovanissimo, il palco dell’Ariston, Nero Nelson, aka di Alessandro Nelson Garofalo, sembra schizzare fuori dalle pagine di uno dei migliori libri di Philip Dick. Lo contatto per l’intervista e si raccomanda di non fargli domande difficili, «tipo scienze e matematica». Lo tranqullizzo – le domande di matematica non gliele saprei fare – e so già che questa potrebbe essere l’intervista più divertente o quella più difficile della mia vita.

Ci incontriamo al Burnin’ (il locale che gestisce insieme a un amico) in zona Vomero: Nelson arriva trafelato e scende dal motorino come se stesse smontando dal cavallo, si toglie il casco schiacciato sui capelli biondo cenere e sfodera il suo miglior sorriso. È in ritardo. Sprofondiamo nei comodi divani del locale e, tra una direttiva e l’altra ai collaboratori, uno dei quali mi porta da bere, gli sparo subito a caldo: «Sul palco dei David hai rubato la scena. In particolare hai detto che sai scrivere anche in italiano e costi il giusto. Non di sole statuette vive l’uomo/artista?». Fa la faccia seria, contrariamente a quanto immaginavo, e mi dice che il suo intervento, almeno per la prima parte, ha avuto il sapore di una mossa di karate, spiazzante. «La gente avrà pensato che sono pazzo». Poi l’urgenza è stata quella di “usare” il palco del David per far capire che l’arte va pagata, non come molto spesso succede che, se non sei famoso, ti chiedono di lavorare gratis a un film o a un disco in cambio della visibilità. «Infine – mi dice – ho voluto menzionare tutte le maestranze che generalmente non sono mai nominate durante i premi e senza le quali è impossibile fare un film».

Resto focalizzata su”Ammore e Malavita” e sono curiosa di sapere come sono venute fuori le canzoni, soprattutto, come è riuscito ad evitare il luogo comune, trappola sempre in agguato quando c’è di mezzo Napoli. «La colpa è tutta di Marco Manetti – ride – che ha concepito questo film evitando i luoghi comuni, e per farlo li ha esasperati così tanto da arrivare al paradosso e alla commedia». In realtà, quello di Nelson con i Manetti Bros è stato un incontro felice perché nessuno di loro, per fortuna, sembra ben ancorato al reale. E qui inevitabilmente scivoliamo verso i lunghi post di Nelson su facebook che a breve, secondo me, lo renderanno famoso. Sono delle vere e proprie microstorie che tengono incollato il lettore perché credibili e ricche di suspense. Nelson racconta fatti veri per poi all’improvviso assestare qualche aggettivo sul finale e smontare tutto costringendo chi legge a non capirci più niente, a non sapere più qual è la verità. Il mio intervistato scoppia in una risata, e mentre si appresta a rispondermi un collaboratore ci interrompe perché al telefono c’è il rosticciere. Si alza e scompare nella cucina. Riappare dopo circa sette minuti, ma in compenso ritorna svelandomi un segreto.

«Da giovane ero timidissimo. Ho iniziato a scrivere per corteggiare le ragazzine della scuola. Lasciavo loro dei lunghi biglietti sotto il banco». Da come lo racconta è facile intuire che l’artificio, con la complicità dei suoi occhi celesti, funzionasse a meraviglia. «Poi la mia caratteristica era andare fuori traccia, anche nei temi d’italiano. Mi uscivano fuori delle cose stranissime e il mio professore delle medie, cui piacevano molto i miei temi, una volta mi mise un voto basso pensando che avessi copiato il compito da un libro. Furono i miei compagni di classe a scagionarmi dicendogli che era farina del mio sacco». «A quel punto – gli chiedo – il professore disse a tua mamma di portarti da un buono psicologo?». Ride. «È evidente che non glielo disse».

E allora, visto che la vita di Nelson è una corda tesa sull’irrealtà, sono curiosa di sapere se durante le riprese di “Ammore e Malavita” gli è capitato qualche episodio surreale. «Certo, più di uno, diciamo tanti. Tra questi il più divertente è che mentre Giampaolo (Morelli) stava girando un scena di azione con Serena (Rossi), io, un po’ stanco, mi vado a sedere dentro un portone. All’improvviso si apre la porta e vedo Giampaolo scappare tenendo per mano Serena. Me la faccio sotto dalla paura e inizio a scappare e a urlare anche io. Giampaolo si ferma e mi dice: Nelson stamm girann ‘a scena. È ‘o film». Qui rischio seriamente di affogarmi col vino mentre non trattengo le lacrime. Ma a questo punto il dubbio sulla veridicità dell’aneddoto mi attanaglia e Nelson lo capisce subito: «Giuro che è tutto vero», mi rassicura.

Mentre mi schiarisco la voce resa roca dalla tosse delle risate, penso che qualcosa di serio glielo devo pur chiedere. So che sta registrando il suo terzo disco, quindi, parto con la relativa domanda. Ovviamente va fuori traccia e mi risponde che sta lavorando a un progetto collettivo, insieme a due musicisti/producers, in cui si sperimenterà su un terreno a lui quasi sconosciuto. «È una cosa completamente diversa da quelle che ho fatto finora, ci ho capito poco anche io. Per il momento non posso rivelare di più, eccetto che tra una diecina di giorni vi farò una sorpresa». Nelson è categorico, capisco che è inutile strappargli qualche spolier.

«Ok. Ma il tuo nuovo disco?». «S’intitola “Pipistrelli” e la direzione artistica è curata da Claudio Gnut. Contiene quattro tracce in lingua napoletana, il resto sono in italiano. I pipistrelli sono simili ai musicisti: si orientano con i suoni, vivono di notte e vanno spesso a sbattere dentro qualcosa».

Al nuovo album Nelson ha chiamato a collaborare alcuni amici artisti partenopei come Raiz, Maldestro, Andrea Tartaglia, Daniele Sepe e naturalmente Claudio Gnut. «È un lavoro che non ha strategie commerciali sotterranee. Non ho pensato troppo al pubblico. Con “Pipitrelli” per la prima volta ho voluto dire la verità». La verità, s’intende, sempre secondo Nero Nelson. Alla quale, temo, anche noi inizieremo presto a credere.

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