Il native advertising è una pratica pubblicitaria piuttosto diffusa, che consiste nel produrre contenuti pubblicitari con un formato simile alla piattaforma sulla quale andranno letti; una specie di advertorial, ma applicato alle piattaforme informatiche, che oggi si sta adattando alle piattaforme mobili, diventate quasi appendici tecnologiche nella vita di tutti i giorni.
Costruire un native advertising non è come costruire altre forme di pubblicità, perché oltre a reclamizzare il prodotto bisogna farlo in maniera tale che i formati si integrino perfettamente con il resto della pagina in cui sono inseriti, senza disturbare o rovinare in alcun modo l’estetica della percezione del consumatore. Per esempio, la pubblicità in internet tramite i banner non è mai stata estremamente efficace, proprio perché un banner tende ad interferire attivamente con la lettura dei contenuti di una pagina; infatti i banner registrano un calo costante dal punto di vista dell’efficacia, anno dopo anno – si stima che gli utenti arrivino ad ignorare il 99,8% dei banner e pop-up, principalmente a causa dell’effetto “fastidioso” che questi hanno sull’estetica di una pagina. Al contrario il native advertising ha il vantaggio di essere integrato nei contenuti, e quindi non “disturba” la percezione durante la navigazione. Gli esempi di native advertising sono tantissimi: basta pensare ai “promoted Tweets” su Twitter, o alle “Sponsored stories” su Facebook.
Il native advertising costituisce una sfida in sé: infatti non esistono ancora rating o buone pratiche riconosciute da tutti in questo campo, e la necessità di calibrare la pubblicità all’utente necessita di una grande gestione creativa, dato che non esistono ancora standard in questo senso. Tuttavia i risultati del native advertising sono sotto gli occhi di tutti: stime pubblicate da fonti specialistiche mostrano che gli investimenti in questo settore sono in deciso aumento, e l’investimento massiccio in questo campo da parte di colossi come Rubicon Project fa capire che questo è il futuro prossimo della pubblicità mobile.
Per quanto sia più semplice creare native advertising su quelle che vengono definite piattaforme chiuse, questa forma di pubblicità si può sviluppare pure su piattaforme aperte. La differenza è che le piattaforme chiuse si limitano pubblicizzare contenuti esclusivamente all’interno di una data piattaforma (p.es., i promoted Tweets su Twitter, che esistono solo nell’ambito di Twitter), laddove i contenuti su piattaforme aperte sono “importabili” su diverse piattaforme. Tuttavia, gli utenti di piattaforme mobili sono in costante aumento, e quindi il passaggio del native advertising su piattaforma mobile è una naturale evoluzione per questo tipo di pubblicità. Uno dei migliori esempi di native mobile advertising è forse l’app Hubbl, che nacque come “app per trovare altre app”, ma viene oggi utilizzata da brand di altissimo livello per creare native advertising su piattaforme mobili: “consigli per gli acquisti” letteralmente cuciti addosso all’utente, che si basano sulle parole ricercate e sui contenuti della pagina che si sta visualizzando in quel momento per offrire pubblicità non intrusive, che non interferiscono con la lettura della pagina stessa ma che reclamizzino prodotti interessanti per il consumatore in quel dato momento.
In conclusione, la pubblicità nativa mobile è senza dubbio il nuovo trend in fatto di advertising, ed adeguarsi a questo standard diventa non solo desiderabile, ma necessario per le aziende che vogliano coinvolgere i clienti sempre più legati a smarphone e tablet.