La protesta contro la discriminazione razziale investe ogni campo: è la volta di un riadattamento della terminologia del linguaggio di programmazione, che subisce gli effetti dell’ondata politically correct, determinata dalle proteste originatesi negli Stati Uniti dopo l’uccisione da parte della polizia di Minneapolis dell’afroamericano George Floyd.

Linux, nelle parole del suo fondatore Linus Torvalds, proporrà un nuovo glossario interno al sistema operativo, “più inclusivo”.

Adesso cosa cambia

Anche il linguaggio di programmazione si adegua al movimento di protesta globale sotto lo slogan “BlackLivesMatter”: dunque, niente più tra gli informatici i termini “slave”, “master” e “blacklist”, bensì svolta con un linguaggio più neutrale nei codici sorgente.

Nella distinzione tra un hardware principale ed uno secondario niente più riferimenti a concetti di interdipendenza come “padrone” e “schiavo” bensì “principale” e “subordinato”; “blacklist” diventa “blocklist” e “whitelist”, “passlist”.

Le parole sono importanti

In questo caso forse, perché sebbene conseguenza di una protesta planetaria contro il radicato sentimento razzista, la rivoluzione della terminologia utilizzata nel linguaggio di programmazione rischia di offrire una trattazione meramente ipocrita ad un problema importantissimo, ma da affrontare in altri ambiti.

Come segnalato dal sito d’informazione specializzata ZDnet non c’è una condivisa visione sulla decisione: da un lato le aspre critiche da parte degli informatici per i quali la decisione potrebbe non avere risultati nella lotta alla discriminazione. Dall’altro, la contrapposizione con i testi accademici che ribadiscono come il protrarsi di termini equivocabili contribuisca alla sedimentazione dell’immaginario stereotipato ed antirazziale.

Foto di Kevin Horvat; fonte foto unsplash.com

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