arte

A metà di maggio 2015, a Roma, spuntò su di un muro, dalla sera alla mattina, l’ennesima, meravigliosa opera di street art. Era un lavoro di Ernest Pignon-Ernest, francese, nato nel 1942. Consisteva in un poster incollato al muro. Raffigurava Pier Paolo Pasolini nell’atto di reggere, con le proprie braccia, se stesso, un altro Pier Paolo, morto. Alla maniera di una straziante Pietà laica, o a voler raffigurare una drammatica storia di premonizioni. Il 24 maggio la figura era già vandalizzata, con l’immagine di un coltellaccio giallo, ottenuta con una bomboletta. Qui ci interessa appunto riflettere un attimo su questa forma innovativa d’arte, nel cuore delle città, quasi un’alternativa “critica” al musealismo di tutta una storia dell’arte. 

Già l’arte espressa nei murales dei writers è segno e indicazione di un atto creativo che vuole essere, come potremmo dire, demo-pop. Un’arte democratica e popolare, nel senso più semplice possibile. Nel senso, cioè, che è composta di creazioni artistiche sbattute in faccia a tutti. Anche di chi i musei non solo non può permetterseli, ma magari li odia, non li sente vicini, non li avverte come fatti per lui, e pensa, con sapore amaro in bocca, che siano fatti per altri, e a questi altri destinati. I murales, invece, stanno nelle piazze. Sui muri dei giardini di periferia. Persino nei vicoli, in città come Napoli o come i borghi medievali saturi di stradine che si incrociano tra loro. Ma i wall-poster, come potremmo chiamare, per facilità, le opere simili a quelle di Pignon-Ernest, contengono una innovazione ancora più profonda del senso popular dell’arte figurativa.

Impotenti, tra le mani di…

Il Pasolini che portava in braccio se stesso, apparso a Roma all’improvviso nel maggio 2015, aveva una caratteristica sostanziale che i murales non avevano. I murales possono essere sì ricoperti di strisce violente, di disegni osceni, tramite ulteriori bombolette spray. Ma non possono essere strappati come un qualsiasi manifesto pubblicitario o elettorale (il quale ultimo è il paradigma del “foglio” abbandonato a qualsiasi “violenza” di chi è dell’altra parte). Invece il poster (oltretutto sempre a grandezza naturale!) che è la peculiarità degli artisti come Pignon-Ernest, costituisce la fragilità assoluta dell’arte. Essa, innanzitutto, non si trincera più dietro il portone di un museo. Ma questo è il minimo, è solo il punto di partenza. Noi siamo convinti che gli artisti come Pignon non provino alcun timore delle vandalizzazioni delle immagini che hanno attaccato nel pericoloso brulicare della città. Anzi…se un uomo “strappa” Pasolini, vuol dire che Pasolini lo ha tormentato dentro.  

La “distruzione” come il banchetto dei semplici

Che l’innovazione dell’arte targata XXI secolo consista proprio in questo essere lasciata assolutamente a se stessa, preda possibile di qualsiasi violenza e rifiuto? E’ paradigmatico il fatto che una delle opere del genio di Pignon-Ernest rimandi, come detto, ad una “Pietà” laica. Pasolini, sul poster, è il Pasolini che già legge, senza ombre di dubbi, il proprio destino di distruzione e di morte barbara, violenta. Non è strano che lo stesso destino Pignon lo riservi all’arte in sé. L’opera – tranne prodigi della storia quasi nemmeno auspicabili – sarà distrutta, ma questa sarà la sua raggiunta fruibilità di opera d’arte per il popolo, di opera d’arte per tutti. Tutti devono mangiare l’arte, fruirne, digerirla, ma ciò è possibile solo se l’arte stessa è senza difese, senza narcisismi di preservazione: io, artista del 2022, faccio l’arte perché ognuno la mastichi come vuole e, se ne ha l’impulso, la distrugga. L’avrà comunque vissuta. 

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