Diario di un viaggio scomodo sull’altra sponda dell’Adriatico.
Parte Prima
Salgo sul taxi a Tirana. Sono le 15.30 di un assolato 17 Agosto. Direzione aeroporto Nënë Teresa, sto per rientrare a Napoli. Dopo i convenevoli di rito il tassista inizia una gimcana, rispettosa del codice stradale, tra le auto strombazzanti nel traffico cittadino mentre un’utilitaria di colore scuro, che procede a gran velocità dal fondo del viale alberato, sterzando ci taglia quasi la strada. Il nostro nocchiero non trattiene una frase di forte disappunto, rinforzata da un gesto della mano traducibile pressappoco in ma che diamine fai, scemo!. Noi, Gigi ed io, commentiamo con una battuta tipica di queste circostanze: “Qui guidano peggio di Napoli”. L’autista che capisce l’italiano, ed evidentemente sa anche in quale regione è situata la nostra città, sorride e nel suo italiano stentato ma comprensibile ci dice: «Albania uguale a sud Italia». Ridiamo e solo allora mi accorgo che la radio in sottofondo sta passando Another brick in the wall e come lo stimolo-riflesso del cane di Pavlov, senza accorgermene, canticchio il ritornello. Pochi secondi e mi fermo. Ho un brivido lungo la schiena.
Venticinque anni fa, qui in Albania, mi avrebbero sbattuto in galera per questo. Non so bene perché, ma non ho più voglia di canticchiare mentre il brano continua a scorrere ignaro e regolare verso il suo epilogo. Stamattina sono stata al Bunk’Art 2 in piazza Skanderbeg (un bunker trasformato in un museo) e ora mi ritrovo a vedere gli albanesi con occhi diversi rispetto ai giorni precedenti, nonostante avessi già fatto qualche domanda in giro su come fosse questo Paese prima della caduta del muro di Berlino.
Entrare dentro un bunker non mi era mai capitato – qui in Albania è facile perché se ne contano circa 750mila, fatti costruire dal dittatore comunista Enver Hoxha per il terrore di attacchi nucleari – e al di là del museo mi incuriosiva la struttura in sé. Una volta dentro, a colpirmi non è solo la grandezza del bunker, con 24 camere, e quel senso di asfissia che trasmette, ma la memoria custodita al suo interno (il curatore del museo, inaugurato lo scorso anno, è il giornalista italiano Carlo Bollino), quella delle atrocità commesse dalla “Sigurimi”, la terribile polizia segreta del regime.
Una ricostruzione, stanza per stanza, tranne in quelle a scatola cinese, specificamente destinate agli eventuali infestati dalle radiazioni nucleari, della nascita del Ministero dell’Interno e dell’ascesa di Hoxha, (c’è anche un Bunk’Art 1 nella periferia di Tirana, inaugurato nel 2014) un autentico pazzo che aveva sposato in toto l’ideologia stalinista (dichiarò l’ateismo di Stato) per poi rompere i rapporti con Mosca sotto il governo di Krusciov e troncare le relazioni con la Cina dopo la morte di Mao, ritenendola un paese avviatosi verso l’imperialismo.
Dentro il bunker si sente tutta l’oppressione del popolo albanese, tenuto a vista dalla polizia segreta con microspie piazzate nei posti più impensabili. Un albanese su tre ha subito almeno un interrogatorio (senza motivo) dalla polizia e quelli che non sono stati mandati ai lavori forzati (se ne contano migliaia) nei circa 90 “campi di lavoro” (con temperature dentro le “stanze” di – 15°) sono stati sbattuti in prigione per motivi politici (oltre 30mila) e condannati senza formale processo, con prove raccolte dopo l’arresto e dichiarazioni fintamente spontanee.
È in questo bunker che mi si annodano alcuni fili di cose osservate nei luoghi più ameni della costa albanese, quella presa d’assalto in estate da turisti stranieri (molti italiani) e locali. Percorrendo le vie di Saranda e quelle dei paesini disseminati lungo il tragitto per arrivarci, ho visto molti negozi di calzolaio, dentro ai quali sono accatastate scarpe visibilmente usate con i relativi prezzi, e contato un numero smisurato di negozi di barbierie. Quest’ultima cosa ha destato non poco la mia attenzione perché mi sarei aspettata molte parruccherie e centri estetici come ne ho viste a Mosca, a Riga o a Kiev, aperte anche la domenica. Le donne lì sono perfette, con le unghie laccate e i capelli sempre in ordine.
In Albania invece c’è la fila fuori dal barbiere. In una delle stanze del corridoio n. 3 del Bunk’Art2 trovo la risposta: il regime vietava la barba e i barbieri erano dipendenti dello Stato. Le loro botteghe erano allocate anche in aeroporto perché chiunque entrava nel Paese doveva essere raso, eccezion fatta per i diplomatici. Un retaggio culturale che oggi nel Paese delle aquile prende la piega di un vezzo.
Una manciata di stanze prima mi imbatto invece nella storia dei sei fratelli Popa, impossibile per me da ricordare (correva l’anno 1985, avevo appena 12 anni), che approfittando di una parata militare per le vie della capitale si gettarono dentro l’ambasciata italiana dichiarandosi rifugiati politici in quanto perseguitati dal regime per essere figli di un uomo che non aveva mostrato collaborazione verso i comunisti quando questi vennero a liberare il Paese dal nazismo. Ne scaturisce una crisi diplomatica tra i due Paesi che durerà cinque lunghi anni, per risolversi in un trasferimento dei sei disgraziati in Italia dove non incontrarono mai quella vita migliore tanto agognata. Questa storia mi colpisce a più livelli: per lo sfondo storico (si iniziavano a intravedere i prodromi della caduta del regime), per quello politico (si sollevò un polverone mediatico, ma nella sostanza l’Italia non provò grande interesse verso i sei sconosciuti. Automaticamente il mio pensiero corre a Giulio Regeni), e infine quello psicologico (i devastanti effetti dell’isolamento totale – non poterono andare a scuola, contrarre matrimonio, avere frequentazioni sociali – sulla loro salute mentale).
La storia dei Popa mi prende la mano e approfittando del wifi avvio le mie ricerche. Scopro, tra i tanti documenti, il libro “Diario dall’Albania” di Annarosa Manetti, testimone diretta dell’evento, in quanto moglie dell’ambasciatore, che mi aiuta capire meglio le condizioni di vita degli albanesi sotto il regime. Tirana era una città così brutta e sfasciata che a confronto Bucarest sembrava un posto da villeggiatura. Nessuno poteva parlare con uno straniero, né vedere la televisione italiana o leggere libri di autori non allineati. I generi alimentari erano una rarità. La paranoia del regime era a livelli altissimi e una distrazione innocente costava la vita. Quella striscia di terra affacciata su due mari (l’Adriatico e lo Jonio) è stato il paese più isolato del blocco comunista, chiuso anche ai paesi-fratelli.
I segni si vedono ancora. A Tirana, accanto a costruzioni più moderne, si scorgono palazzi decadenti e con serbatoi d’acqua sopra i tetti. Percorrendo la SH4, una pericolosa strada a doppia corsia, la migliore del Paese, che dalla capitale porta ai confini con la Grecia, se ne vedono a centinaia di case, incastonate nel paesaggio brullo, con i serbatoi sui tetti e in alcuni casi con i pannelli solari.