La rete ha abolito i confini e con loro anche gli intermediari delle informazioni. Un gruppo di ricercatori dell’Università Ca’ Foscari di Venezia ha indagato i comportamenti degli utenti sui social e ha scoperto che cerchiamo più conferme alle nostre idee che la “verità”.

All’inizio del web fu intelligenza collettiva, o almeno questa era la speranza dell’era digitale. Oggi si potrebbe dire che la diffusione dei social network sembra invece averla affossata. Ad approfondire questo delicato tema uno studio del Laboratory of data science and complexity dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, coordinato dal ricercatore Walter Quattrociocchi, i cui contenuti sono stati illustrati  dallo studioso nello scorso aprile sulla rivista «Le Scienze». Il team di ricercatori – si legge nell’articolo – ha analizzato il consumo dei post contenenti notizie pubblicate su Facebook da testate giornalistiche blasonate, e il modo in cui gli utenti dei social ne usufruiscono. Dall’interessante studio una prima considerazione di carattere generale si evidenzia: internet ha eliminato gli intermediari nella produzione e fruizione del sapere. Tutti sono produttori e, al contempo, consumatori di notizie, ma questa “libertà”, che poteva giovare al mondo attraverso una elaborazione collettiva delle informazioni non più legata ai confini geografici, nei fatti tende ad omologare il pensiero degli utenti e fa pericolosamente spazio alle loro percezioni con tutti i limiti annessi e connessi alla soggettività.

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La pubblicazione mostra infatti che i fruitori dei social media tendono a confermare le loro idee condividendo contenuti in linea con le proprie convinzioni, al di là del fatto se essi siano veri o meno (fenomeno definito confimition bias). In questo modo si vengono a creare delle vere e proprie casse di risonanza (le echo chamber, termine entrato finanche nell’enciclopedia Treccani) su argomenti spesso di grande rilievo nazionale o internazionale, come per esempio il dibattito sui vaccini, che ha letteralmente spaccato l’opinione pubblica, o sulla Brexit. In poche parole se io credo che i vaccini facciano male, condivido sui social tutte le informazioni a supporto della mia tesi, probabilmente, anzi, sicuramente, anche quelle più fantasiose e poco scientifiche che in gergo tecnico oggi chiamiamo fake news. In un qualche modo è come se le persone rimanessero virtualmente chiuse nella loro “stanze” senza comunicare con quelle della “stanza” accanto che magari sono portatrici di una diversa prospettiva. E qui si rivela in tutta la sua potenza il paradosso del web: l’accesso senza confini alla conoscenza porta ad una maggiore radicalizzazione delle proprie opinioni che a sua volta fa aumentare in maniera esponenziale il rischio di circolazione di notizie false.

Il gruppo di studiosi ha infatti seguito le tracce della polarizzazione per stanare gli argomenti più sensibili alla disinformazione, scoprendo una forte correlazione «tra gli argomenti che polarizzano l’opinione pubblica e i temi che più ricorrono nelle bufale on line». Come uscirne vivi? «In questo scenario – scrive Walter Quattrociocchi – i tentativi di arginare il fenomeno basati sulla verifica delle fonti e fatti riportati (il fact-checking) e sulla decostruzione delle bufale (dubunking) non sono molto efficaci».

Lo studioso evidenzia che lo stesso concetto di verità, nel campo scientifico, è già fragile all’origine, e che «l’obiettivo dovrebbe essere il ripristino della comunicazione in modo che le informazioni possano circolare più facilmente». Non solo. «Incentivare lo scambio invece che il monologo o peggio ancora la ridicolizzazione di chi ha opinioni diverse da noi». La via maestra – secondo il ricercatore – è quella di intercettare i bisogni informativi degli utenti per poi passare le informazioni in modo tale da suscitare il loro interesse, senza trascurare, in tutto questo, di smorzare i toni della comunicazione e ricordando che l’essere umano non è razionale, ha una parte emotiva che entra fortemente in gioco anche quando scorribanda nel mondo virtuale.

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