In Europa la limitazione della durata della giornata lavorativa ha rappresentato una delle prime materie oggetto di intervento, da parte dei legislatori, per rendere meno distante il divario di scambio fra capitale e lavoro.
Già a partire dal 1800 la durata della giornata lavorativa è stata oggetto di forti contrasti tra le parti sociali, date le condizioni di lavoro davvero pesanti cui era sottoposto il lavoratore. Per avere un’idea basti pensare che nelle fabbriche tessili in Inghilterra la giornata lavorativa ordinaria aveva inizio intorno alle cinque e mezzo del mattino, per terminare alle venti e trenta di sera. In Francia solo la rivoluzione del 1848 imporrà il limite massimo di 10 ore di lavoro giornaliere, per poi tornare, come per tutto il resto d’Europa, Italia inclusa, ad una durata di 12 ore, (dalle 6 del mattino alle 18). Questa situazione porterà ad una “battaglia per le otto ore giornaliere” avvicinando la classe operaia di tutta Europa, con successi che si vedranno soltanto dopo il primo conflitto mondiale.

Nella maggior parte dei paesi europei la regolazione degli orari di lavoro è governata dalla
contrattazione collettiva, sulla base di standard minimi definiti dalla legislazione nazionale.
La legislazione stabilisce il numero massimo di ore lavorabili, giornaliere o settimanali, rappresentante un numero di solito molto superiore alle ore lavorabili definite dai contratti collettivi. Le differenze nelle modalità di regolazione degli orari di lavoro dipendono pertanto dalla diversa rilevanza che l’assetto legislativo o della contrattazione assume in materia di orario.
La Francia è il paese europeo in cui la legislazione ha un ruolo principale nella regolazione
degli orari, seguita da Belgio, Portogallo, Spagna e Grecia, mentre in Gran Bretagna, prima del 1998, anno in cui è stata recepita la direttiva comunitaria sugli orari, non esisteva alcuna normativa in materi. Negli altri paesi europei, soprattutto in Italia, in Germania, e nei paesi scandinavi, la regolazione degli orari è in larga misura definita dalla contrattazione collettiva.
Sono ancora significative le differenze di orario di lavoro in tutta Europa, con una settimana lavorativa media che nel 2014 si è attestata sulle 38 ore.
Analizzando il dato si rileva però che la settimana lavorativa si è ridotta di circa 1/2 ora in quindici Paesi UE, (Francia, Germania, Italia, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Irlanda, Regno Unito, Danimarca, Grecia, Spagna, Portogallo, Finlandia, Svezia e Austria) mentre, si è allungata di circa un’ora e trenta minuti in undici paesi dell’Est Europa (Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Bulgaria, Romania e Croazia).
Disparità si registrano anche per quanto riguarda le ferie annue che variano dai 40 giorni per la Germania ai 28 giorni per l’Estonia, dove si lavora in media due settimane di più.
Il paese dove invece si è registrato l’orario di lavoro minore è stato la Finlandia, con 37,6 ore. Il lavoratore finlandese ha lavorano in media 3,6 ore a settimana in meno di quello rumeno.
Un altro divario registrato in UE è quello tra lavoratori donne e lavoratori uomini. Questi ultimi lavorano in media due ore di più rispetto alle loro colleghe. Analizzando i dati, nazione per nazione, le differenze uomo-donna appaiono ancora più marcate. In Irlanda gli uomini lavorano 3,6 ore più delle donne, mentre nel Regno Unito 3,4, e in Italia 3. Di contro la differenza di orari di lavoro tra uomini e donne in Croazia, Lettonia, Lituania e Romania è meno di 1 ora. In Bulgaria è meno di 20 minuti.
Sostanziali le differenze anche in merito alle ferie annuali retribuite, con una media per l’EU di 35 giorni (40 i giorni di ferie, comprese le festività pubbliche, in Germania seguita da Francia e Italia, fino ad arrivare ai 28 giorni dell’Estonia).

Eugenio Ragusa

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