Simone Moro è la prova vivente che anche la resa, a volte, può avere valore.

‹‹Un Ottomila è tuo solo quando ne sei sceso, prima sei tu che gli appartieni››: lo diceva non molto tempo fa Kurt Diemberger, uno dei più grandi alpinisti viventi. E lo sa bene un altro grande alpinista, non austriaco come il primo ma nostrano, italiano, Simone Oro. Lo scalatore vive nel rischio, nell’incertezza, in condizioni climatiche (e non solo) disumane, al limite della sopravvivenza. Eppure, credereste voi che uno sportivo così straordinario sia stato simbolo della nostra limitatezza all’ultima edizione del Trento Film Festival? Un paradosso, quasi. Ecco, sbagliereste. Già, perché prima che un grande scalatore, Simone Moro è un uomo. E la natura dell’uomo è limitata: perciò chi sa riconoscere i propri limiti può a ragione ritenersi fiero e soddisfatto di sé.

Ah, Socrate sarebbe fiero di lui (e di noi)!
Tornando al nostro protagonista, è giusto precisare che è stato ospite d’eccezione alla giornata del Festival dedicata al valore della rinuncia, durante la quale ha raccontato la sua esperienza e gli episodi di “rinuncia alla vetta”. La rinuncia – sembra strano sentirlo dire, soprattutto da uno sportivo – può avere valore. Lo ha nel momento in cui diventa scelta consapevole, operata dall’uomo in nome di valori più importanti. Come quello della vita: ecco che allora desistere dall’impresa, non provare neanche a fare altre poche centinaia di metri per raggiungere la vetta, l’obiettivo per il quale si è lottato e speso tanto, diventa una virtù. ‹‹Spesso è una scelta di sopravvivenza che rappresenta solo una posticipazione del successo››  ha spiegato Moro al Festival.

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