Arriva in Parlamento la proposta di legge sul biotestamento, tra confusione di termini e divergenze politiche.
Lunedi 13 marzo il Parlamento ha avviato la discussione generale sulla proposta di legge n. 1142 “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”, cd. testamento biologico, frutto dell’unificazione di ben sedici testi normativi, di cui l’onorevole piddina Donata Lenzi, membro della Commissione Affari Sociali, è stata promotrice e relatrice.
Un testo atteso da anni e la cui discussione è stata sicuramente accelerata dalla recente vicenda del dj Fabiano Antoniani, cieco, tetraplegico e senza alcuna possibilità di miglioramento, che ha posto fine alla sua esistenza presso la clinica Dignitas in Svizzera dopo aver chiesto a più riprese a tutte le Istituzioni di essere aiutato a morire.
La proposta di legge attualmente in discussione vuole andare a colmare il vuoto legislativo, finora riempito dalle sentenze dei tribunali e dagli orientamenti medici, relativamente ad un tema che, pur ripropostosi ciclicamente negli ultimi dieci anni, anche con una certa drammaticità, non è mai stato concretamente affrontato in maniera organica.
Infatti, mentre nel resto dell’Europa i Paesi membri si sono dotati di una legge ad hoc, l’Italia, in buona compagnia della cattolica Irlanda, ne resta ancora priva nonostante nel 1997 la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina, la cosiddetta convenzione di Oviedo, garantiva ad una persona, non in grado di esprimere la sua volontà al momento di un intervento medico, il rispetto dei suoi desideri precedentemente espressi, garantiva, in poche parole, la possibilità di scegliere quali cure accettare e quali rifiutare.
L’Italia nel 2001 ha soltanto recepito la normativa europea, ma non ha mai ratificato la Convenzione, rimasta così lettera morta, nonostante i casi eclatanti come quello di Piergiorgio Welby nel 2006 e di Eluana Englaro 2009, arrivati nelle aule giudiziarie. A non arretrare mai di un passo sull’urgenza di una legge l’Associazione “Luca Coscioni”, legata al Partito Radicale, che nel 2013 ha raccolto 66mila firme per la deposizione di una legge di iniziativa popolare, oggi in discussione presso le commissioni congiunte Giustizia e Affari Sociali, che consenta ad un cittadino di poter decidere di porre fine alle sue sofferenze.
Ed è proprio su questo punto che si rende necessaria la massima chiarezza, accavallandosi nell’opinione pubblica una babele di terminologie usate impropriamente come sinonimi.
La legge attualmente in discussione generale alla Camera, dunque un primissimo step, fa riferimento al cosiddetto testamento biologico definito nel testo normativo disposizione anticipata di fine trattamento (Dat). Non si parla in questa sede né di eutanasia attiva, ossia di somministrazione letale di un farmaco su richiesta del paziente per il quale non si attestano possibilità di guarigione o di condurre una vita in modo dignitoso, né di suicidio assistito ovvero l’auto somministrazione da parte dell’ammalato, sempre in condizioni di estrema gravità, del farmaco mortale. Per intenderci il caso di Fabiano Antoniani.
Dunque, cosa sono i DAT?
L’articolo 3 della legge in discussione alla Camera lo spiega così: “Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e volere, in previsione di una propria futura incapacità di autodeterminarsi può, attraverso disposizioni anticipate di trattamento, esprimere il consenso o il rifiuto rispetto a scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, ivi comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali”.
Il fulcro della normativa poggia sul consenso informato ossia sul diritto del paziente a essere messo al corrente del proprio stato di salute e delle relative cure nonché della possibilità di non accettarle, sollevando così il medico da eventuali responsabilità qualora rispetti la volontà del paziente. La legge inoltre prevede, nei casi in cui la persona sia in uno stato di totale incoscienza, l’individuazione di un fiduciario preventivamente indicato dal paziente.
Tali disposizioni vengono trascritte e custodite nella cartella clinica, e il paziente ha facoltà di revocare le DAT in qualsiasi momento.
L’approvazione della normativa, va chiarito, poggia sul concetto dell’autodeterminazione ossia della possibilità di un soggetto di scegliere, almeno secondo i suoi promotori. Non è un’autorizzazione né un’istigazione al suicidio. Come sottolineato anche dall’Associazione “Luca Coscioni” 232 sono le persone, dal 2015, rivoltesi a loro per chiedere informazioni su come ottenere l’eutanasia all’estero, di queste solo 115 hanno concretizzato il loro intento e sono andate in Svizzera. Qualcuno ha anche cambiato idea.
Nettamente in contrapposizione ai DAT e a qualsiasi azione volta ad accelerare la morte, una parte del mondo politico appartenente a vari schieramenti e legato all’universo cattolico, che ritiene la vita un bene supremo, un dono, di cui l’uomo non può disporre a suo piacimento.
L’Associazione Pro Vita, infatti, ha lanciato poche settimane fa un appello contro la firma dei DAT sostenendo che “in virtù di un mal compreso “diritto all’autodeterminazione”, si permettono atti che invece di realizzare l’autodeterminazione piuttosto la distruggono: non c’è libertà senza vita. In nome di un assurdo “diritto a morire” si introduce il conseguente “obbligo di uccidere” mentre i malati hanno bisogno invece di accompagnamento – quando le circostanze lo richiedano – di cure palliative per il controllo del dolore”.
Più accogliente, ma delicatamente fermo su posizioni contrarie alle dichiarazioni anticipate anche il sacerdote Gennaro Matino, editorialista e docente di Teologia Pastorale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, il quale in un articolo a sua firma apparso sul quotidiano «La Repubblica» del 5 marzo scorso esprime il suo pensiero: “Ritengo che la fine della vita è pur sempre vita, ritmata dalle stagioni e dagli avvenimenti di ogni giorno e che questo segmento di vita non è tempo superfluo, è un bene concesso, un’esperienza comunque umana. Non giustifico il dolore, lo combatto, ma eroismo non può essere negare la sofferenza togliendosi la vita”. E ancora: “Solo chi conosce la vita, e impara ad accettarla nella sua verità, fa i conti con il dolore e la morte. La presunzione di resistere alla morte quando è arrivata l’ora o di anticiparla quando ci sembra troppo in ritardo sono di uguale natura”.
La seduta del 13 Marzo scorso si è conclusa con il rinvio della discussione al 21 Marzo, che ha avuto regolarmente luogo anche se la priorità è stata data al decreto post-terrremoto. La strada verso l’approvazione della proposta di legge è sicuramente molto lunga e irta di ostacoli. Infatti, se da un lato vi è un nutrito consenso trasversale sulla necessità di una norma sul fine vita, dall’altro, una parte del mondo politico promette battaglia (assolutamente contraria la Lega Nord) e dura opposizione in Parlamento che fa presagire un allungamento dei tempi.
Ma al di là dell’essere a favore o contrari alle disposizioni anticipate di trattamento – ognuno è libero di esprimere il proprio convincimento – su due punti dovrebbero essere tutti in accordo: i disabili gravissimi sono lasciati soli dalle Istituzioni e le cure palliative, rientrate solo lo scorso anno nei livelli essenziali di assistenza, ancora troppo poco praticate e diffuse a macchia di leopardo.
Almeno su questo si spera che la politica, in maniera bipartisan, si impegni molto di più perché, DAT o meno, i diritti dei disabili gravissimi nel nostro Paese sono ancora una chimera, in vergognoso sfregio alla Convenzione Onu che li riconosce e li tutela.