Pochi giorni fa il Ministro della Salute Roberto Speranza ha firmato un decreto che autorizza la distribuzione e l’utilizzo, seppur con delle limitazioni e in via straordinaria, degli anticorpi monoclonali contro la Covid-19 prodotti dalle aziende Regeneron (casirivimab/imdevimab) ed Eli Lilly (bamlanivimab).
Di cosa stiamo parlando
Gli anticorpi monoclonali sono dei farmaci prodotti in laboratorio. Derivano dagli anticorpi presenti nel plasma dei pazienti guariti, ma sono sintetizzati artificialmente. Possono essere quindi prodotti in grande quantità, e il loro utilizzo ha rivoluzionato le terapie per le malattie degenerative, autoimmuni, neoplastiche e infettive molto gravi e letali.
Ma cosa significa “monoclonali”?
Gli anticorpi sono delle proteine specifiche contro un patogeno, prodotte dalle cellule del sistema immunitario. Ogni cellula produce un anticorpo diverso dagli altri, e contro un certo patogeno possono essere attivate tante cellule diverse, ciascuna con il proprio anticorpo. E’ possibile però isolare una singola cellula (un singolo “clone”) e farle produrre anticorpi del tutto identici fra loro, definiti per questo “monoclonali”, cioè provenienti dallo stesso clone.
Come funzionano contro il Covid-19?
Il bersaglio di questi anticorpi è la proteina “spike” del virus SARS-Cov-2, che gli permette di entrare nelle cellule umane. Hanno sia un’azione diretta, poiché legano e bloccano la proteina, sia indiretta, infatti agiscono anche sul sistema immunitario del paziente, spingendolo a riconoscere il virus più velocemente ed eliminarlo.
Quali sono attualmente in studio?
Come dicevamo, l’Italia ha appena approvato l’utilizzo di bamlanivimab (Eli Lilly) e del cocktail costituito da casirivimab e imdevimab (Regeneron), ma almeno altri sei hanno raggiunto la fase finale della sperimentazione. Inoltre, sta per partire anche lo studio degli anticorpi prodotti dal MAD Lab in Toscana, coordinato da Rino Rappuoli.
Chi può utilizzarli?
Il loro uso è limitato a pazienti “ad alto rischio”, ovvero persone risultate positive al virus con più di 55 anni e/o con patologie croniche quali diabete, ipertensione e obesità. Inoltre, poiché diversi studi hanno dimostrato l’inefficacia di questi farmaci in pazienti già ricoverati o in terapia intensiva, la somministrazione è autorizzata solamente entro una settimana dalla comparsa dei sintomi, lievi o moderati che siano, sulla falsariga di ciò che già avviene negli Stati Uniti e in Canada.
Calo della mortalità da dimostrare
L’Italia ha quindi a disposizione un’arma in più per contrastare la pandemia, ma questo non deve far pensare che ci troviamo di fronte ad un farmaco “salvavita”, per due motivi. Innanzitutto, sebbene il trattamento effettivamente riduca il numero dei ricoveri, non esiste ancora nessuno studio che dimostri un calo della mortalità. Inoltre, la somministrazione avviene tramite un’iniezione endovena, che richiede quindi personale specializzato e un periodo di osservazione successivo di 2-3 ore per verificare la comparsa di possibili reazioni avverse: tempo e personale, due risorse che in un periodo di emergenza sanitaria come questo sono spesso difficili da reperire, rischiando quindi di caricare ulteriormente le strutture ospedaliere.
C’è poi da tenere a mente la diffusione delle varianti del virus, alcune delle quali sembra contengano mutazioni potenzialmente capaci di permettere al virus stesso di sfuggire al legame con gli anticorpi, rendendo meno efficace il trattamento. Molti studi sono attualmente in corso per valutare quanto sia concreta questa possibilità.
Nel mentre, l’agenzia europea Ema non ha ancora rilasciato la certificazione per questi due farmaci, ma ha fatto sapere che sta al momento valutando i risultati preliminari, e che “la valutazione continuerà fino a quando non saranno disponibili prove sufficienti”.