Circa 7mila espressioni offensive al giorno vengono intercettate sul web. Un fenomeno pericoloso che non accenna a diminuire. La sola rimozione dei contenuti non basta.

Da faccia di scimmia a prostituta, da negro di merda a culattone, da stupido handicappato fino all’augurio di ogni sorta di male, l’hate speech, letteralmente linguaggio offensivo, è la piaga purulenta dell’era digitale. Si badi bene, le offese, le intimidazioni, gli insulti, gli incitamenti all’odio, le discriminazioni su base razziale o sessuale non sono purtroppo nuove, ma nel mondo del web 3.0 hanno una portata più pericolosa perché senza confini e senza limiti. Tutti, potenzialmente, possono leggere un contenuto lesivo della dignità rilasciato in un perimetro virtuale, e pochi hanno la percezione che esso sia reale. Perché lo è, anche se comunicato pigiando una tastiera e senza guardare negli occhi il destinatario dell’offesa.

Infatti – come spiega Tiziana Montalbano, membro dell’Associazione Parole_Ostili, nata a Trieste nel 2016 per attivare processi di sensibilizzazione contro la violenza nelle parole, – la causa principale dell’hate speech è l’assoluta mancanza di considerazione che, oggi, il virtuale è reale. Questi due mondi, con il progredire anche della tecnologia, sono sempre più interconnessi, a volte rischiano addirittura di sovrapporsi. L’assenza di percezione del virtuale come reale è anche fortemente responsabile della veemenza delle offese, che sempre più spesso si trasformano in vere e proprie violenze, dunque in azioni di una certa gravità.

Come riportato dall’AGI nel giugno scorso, «ogni giorno on line vengono rilevati 7mila hate speech e tra i vari canali usati un ruolo fondamentale lo ricoprono soprattutto i social network». In Italia, stando sempre ai dati dell’Agenzia giornalistica: «nel 2016 l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali ha lavorato su 2939 segnalazioni, di queste il 90% sono risultate effettivi casi di discriminazione, il 6,4% (187) sono state considerate dubbie e solo il 3,2% (97 casi) non pertinenti».

Ad essere prese di mira, secondo l’indagine del 2016 condotta su twitter dall’Osservatorio italiano sui diritti Vox, sono in primis le donne, a seguire omosessuali, ebrei, musulmani e migranti. Ma «nonostante la legislazione contro l’hate speech e le norme di autoregolamentazione delle piattaforme social – spiega il dossier Notizie oltre i muri, pubblicato nello stesso anno dall’Associazione Carta di Romasi assiste alla proliferazione di linguaggi profondamente intolleranti».

Per porre rimedio, infatti, ad un fenomeno che non è più solo odioso, ma che ha assunto i contorni di una vera e propria forma di violenza, la Commissione Europea ha imposto nel maggio del 2016 a Facebook, Microsoft, Twitter e YouTube la sottoscrizione di un codice di comportamento con il quale i colossi del web si impegnavano a mettere in atto procedure di segnalazione efficaci, a rendere chiare per la comunità le proprie politiche e linee di condotta sui discorsi d’odio e a rimuoverli dai loro siti entro le 24 ore.

Il monitoraggio sull’applicazione del codice di condotta, reso noto dalla stessa Commissione pochi mesi fa, non è di certo rincuorante: solo il 28% dei contenuti segnalati viene rimosso e si interviene su solo il 9% dei commenti irregolari. Lo sforzo dunque non è sufficiente. D’altronde basta girovagare qualche ora sul web per rendersene conto, così come è evidente che il fenomeno si nutre di un certo tipo di comunicazione politica e giornalistica, molto generosa in quanto a parole ostili verso alcune categorie di soggetti o di avversari politici (se lo ha detto Tizio, posso dirlo anche io).

 

Il tema della rimozione di contenuti offensivi, che oggi, quando avviene, è attraverso una procedura manuale (con i suoi evidenti limiti), attrae a sé almeno due aspetti che lo influenzano in modo considerevole: quello culturale e quello legislativo. Per il primo i termini della questione si polarizzano sulla necessità o meno di porre un limite alla libertà di espressione (ma la domanda, almeno per noi europei, è: «Minacciare di morte qualcuno o appellarlo con termini volgari è libertà?»), per il secondo, strettamente correlato al primo, va tenuto in considerazione che gli Stati hanno differenti normative in materia, basate appunto sul proprio orientamento culturale. Per non tralasciare poi la questione se censurare l’hate speech debba essere appannaggio dei social network (aziende private che discriminano i contenuti, e qui i risultati del monitoraggio della Commissione parlano chiaro) o se è la tutela della dignità di un cittadino, aggredito nel mondo virtuale/reale, sia precipua competenza dello Stato.

In Italia, per esempio, non esiste una legge specifica che riguarda l’hate speech, ma al fenomeno sono applicate per analogia una serie di norme relative ai reati di incitamento all’odio razziale, propaganda di idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale, ingiuria, diffamazione e minaccia. Di un mese fa, invece, la notizia che in Germania è stata approvata la cd “legge facebook” che prevede multe salatissime per i social network con più di 2mila utenti che non cancellano contenuti diffamatori.

Ma il problema della violenza sul web si risolverebbe del tutto con una serrata repressione? Secondo l’Associazione Parole_Ostili, che ha stilato pochi mesi il Manifesto della comunicazione non ostile, reprimere non basta. La parola d’ordine, come sempre, è prevenzione, dunque educazione alla responsabilità nell’utilizzo delle parole e del web.

«Secondo noi – afferma Tiziana Montalbano – è fondamentale educare gli utenti della rete a stare in questo mondo con serenità. Come farlo? Condividendo cose belle, che ci piacciono, positive, poi l’altra indicazione è non replicare alle offese. Così si disinnesca l’escalation di odio e il molestatore prima o poi si stancherà. Ciò ovviamente per gli atti meno gravi».

«Per le minacce molto serie – continua – per le quali si possono configurare ipotesi di reato è necessario invece sporgere denuncia, chiedere aiuto a chi ci è vicino, rivolgersi a persone esperte».

Questo perché, come recita il primo punto del Manifesto, «virtuale è reale».

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